sabato 29 gennaio 2011

QUINDICI ANNI DOPO

Di seguito l'introduzione alla nuova edizione de "Al Tempo che Berta filava" del prof. Giorgio Petracchi.


                               QUINDICI ANNI DOPO



Una sottile inquietudine pervade i miei pensieri nell’accin-
germi a licenziare la nuova edizione del volume.
    Alla metà degli anni Ottanta, alcuni ex partigiani dell’XI
Zona vollero incontrarmi. Esitarono un po’, poi vennero al
punto. Mi proposero di scrivere la storia della loro forma-
zione. Promisero di mettere a mia disposizione i documen-  
ti in loro possesso e di aiutarmi a raccogliere tutte le testi-
monianze possibili. Specificarono anche che la scelta era ca-
duta su di me perché mi sapevano «libero da condiziona-
menti di parte», e dopo aver consultato uno storico ex azio-
nista, in certo qual modo un testimone del tempo (di cui
peraltro mi fecero il nome).
     Accettai. Mi muoveva la curiosità di conoscere dall’in-  
terno un mondo che avevo conosciuto attraverso alcune let-
ture (e l’ambizione di trasformare in una pagina di storia
un’incerta e controversa memoria collettiva affidata a bran-
delli di testimonianze).
     Mi premeva anche raccontare una storia della Resistenza
italiana recuperando la verità degli eventi, degli esseri viven-
ti e delle cose nella mutevole situazione di ogni giorno. Sa-
pevo che di quel periodo non era stato detto tutto. E pensa-
vo, ristabilendo i fatti, di poter smentire luoghi comuni e pre-
giudizi che avevano condannato Manrico Ducceschi, il co-
mandante «Pippo», a una sorta di damnatio memoriae. Vole-
vo con ciò rivitalizzare la  memoria della  Resistenza,  che  la
sua ritualizzazione aveva finito per opacizzare, senza farne 
la storia.
      La gratuità dell’impegno e la base volontaristica dello
stesso, secondo il costume civile di quegli anni, avrebbero
dovuto consentirmi la massima libertà intellettuale. Questa 
fu la contropartita, non scritta, accettata dai committenti.
     Non mi spaventò l’impresa di districare la trama dei fatti
dalla dispersione delle fonti, né di affrontare il guazzabuglio
dei sentimenti. Le difficoltà da superare sorsero in corso
d’opera: molte e di vario genere, comprese le intimidazioni
tendenti a scoraggiarmi, quando non proprio a impedirmi, 
dal continuare. Ciò che produsse la svolta fu un viaggio 
negli Stati Uniti per ragioni di studio. Un’esplorazione dei
National Archives di Washington aprì al lavoro una dimen-
sione nuova. I files: dell’OSS (Office of Strategic Services),
appena declassificati mi dettero quei riscontri archivistici in-
dispensabili per ancorare tante supposizioni a date, nomi,
luoghi. Entrai anche in contatto con ex agenti dell’OSS che
avevano operato come ufficiali di collegamento con l’XI
Zona, dai quali raccolsi impressioni e documenti.
     Non sono così ingenuo da venerare la sacralità del docu-
mento, per cui quod non est in actis non est in mundo. Certa-
mente, però, quei documenti certificarono fatti e circostanze
dimenticati, o affidati a una memoria spesso labile, incerta (o
interessata). A conclusione della ricerca e al momento della
stesura, mi resi conto di aver affrontato vicende umane trop-
po vicine a noi, gonfie ancora di ferite e di dolore, che as-
sunte al di fuori del loro contesto, o non compiutamente in-
serite nell’agire degli uomini del tempo, potevano risultare
spietate e ciniche. Da ciò l’esigenza di allontanare il tempo
adottando uno stile narrativo, che in certo modo trasfiguras-
se la «guerra totale» vissuta dagli italiani tra il 1943 e il 1945.
Già il titolo, Al tempo che Berta filava, è una metafora di
qualcosa di lontano, di passato, di un tempo diverso.
     Quindici anni dopo l’uscita del volume, questa imposta-
zione mi appare ancora più opportuna, nell’interesse proprio
della verità storica. Il tempo da allora trascorso ha attenuato
la lettura di quegli avvenimenti risolta in chiave eminente-
mente ideologica e ha portato a valutare con più attenzione 
la vicenda umana delle parti, uomini e donne, coinvolte nel 
conflitto (anche se è fuori discussione che l’ideologia di una
parte fosse giusta e l’altra sbagliata). Per questo c’è ancora
più bisogno di storia. Occorre assolutamente leggere le azio-
ni degli uomini di quel tempo nel contesto della morale e    
delle passioni dell’epoca.
   Nell’Epilogo (o l’inizio fittizio di un'altra storia), che chiude la
prima edizione del volume, anticipai con un salto cronologi-
co di tre anni la conclusione di questa storia, che giunse ra-
pidamente (e tragicamente) a compimento nell’agosto del
1948 con la morte di Manrico Ducceschi, il comandante
«Pippo». Avevo bensì pubblicato due documenti, simmetri-
ci e antitetici, che proiettavano la vicenda personale del co-
mandante «Pippo» sullo sfondo della storia d’Italia del do-
poguerra divisa lungo la faglia ideologica che opponeva an-
tifascismo atlantista e antifascismo sovietico.
     L’epilogo della vicenda esistenziale del comandante
«Pippo» chiude emblematicamente la periodizzazione della  
storia d’Italia, cominciata nel 1943. La fase storica apertasi
con quella data oltrepassa il 1945 e arriva all’aprile del 1948
e dintorni, quasi senza soluzione di continuità. Certamente,  
il dopoguerra richiede la conoscenza di categorie interna-
zionali, politiche ed evenemenziali diverse rispetto a quelle
del 1943-1945, ma si tratta di variabili; il fronte ideologico,
ossia il parametro che ha più alto potere esplicativo delle
variabili, era già stato impostato. Insomma, l’altra storia era
già cominciata nella prima storia. E il futuro dell’Italia si sa-
rebbe giocato fra il 1943 e il 1948.
      La vicenda personale del comandante «Pippo» assume  
in quel triennio un profilo più preciso. Contribuisce a defi-
nirlo il salto di qualità assunto dalla lotta politica. I partiti
politici procedevano tra scontri e compromessi alla loro le-
gittimazione reciproca nello spazio pubblico. Sottotraccia, 
gli apparati militari delle formazioni partigiane (rosse, bian-
che, autonome, GL, ecc.) operavano a mantenere un equi-
librio militare virtuale. Questo doppio livello della lotta po-
litica è ancora poco studiato, ma la sua conoscenza e neces-
saria per procedere alla concettualizzazione della storia d’I-
talia nel secondo dopoguerra.
       La nuova edizione del volume dopo quindici anni mi
consente di richiamare diffusamente lo scenario politico di
quei tre anni che non potei completare allora. Non lo con-
templava l’impegno preso con i Patrioti dell’Xl Zona, né lo
consentiva la documentazione allora in mio possesso. Ripro-
posti insieme ad altri nel loro contesto allargato, i documen-
ti pubblicati allora nell’Epilogo conferiscono a questa storia
la sua dimensione più compiuta, nel senso che essa non sa-
rebbe comprensibile se non tenendo conto degli aspetti ri-
velatori degli ultimi tre anni di vita del suo protagonista.
      Ma un’altra buona ragione mi ha indotto ad andare fino 
in fondo a questa storia e a guardare dentro il nostro recen- 
te passato. A suggerirmela è stata l’incerta impostazione di
questo controverso Centocinquantenario dell’Unità d’ltalia,
privo di un’idea chiara di Stato e di nazione, che vorrebbe
invece celebrare.
      Il variegato fronte azionista, di cui il comandante «Pippo»
fu espressione, cercò di dare vigore nella lotta resistenziale a
un’idea di nazione, intesa come patria coniugata a libertà e
democrazia, a un forte senso dello Stato e delle istituzioni, di
chiara impronta risorgimentale. E una parte dell’azionismo
intese riaffermare questa idea di nazione nella temperie del
dopoguerra attraverso la costruzione della «terza forza», o
«terza via» che fosse. Ad esso, tuttavia, mancò proprio la
forza di impedire la frantumazione della nazione al suo in-
terno e la sua trasformazione nel campo d’azione dei due
imperialismi opposti e trionfanti.
      La decisione del comandante «Pippo» di riprendere a col-
laborare con i servizi segreti americani nell’incandescente
clima del dopoguerra è la testimonianza che il suo percorso,
vincente nello stato d’eccezione della guerra partigiana, è già
chiuso senza possibilità di sbocco, che non sia quello di spo-
starsi su di uno dei due poli: da un lato quello sovietico, dal-
l’altro quello americano. In conclusione, la sua tragica fine
prefigura non solo la sconfitta del suo percorso personale, ma
anche il fallimento di tutto ciò che in esso era implicito:la sua
concezione della nazione e della «terza forza» per sostenerla.

Maggio 2010
 





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